Testimonianze del 25 aprile 1945
A Milano l’inverno del 1944-1945 è certamente uno dei più terribili per il movimento partigiano e per i suoi sostenitori, anche se la speranza della prossima fine della guerra rende più sopportabili le sofferenze.
Nella nostra città, come in altri centri dell’Italia settentrionale, affluiscono nuclei di repubblichini da ogni dove: elementi che avevano abbandonato le regioni già raggiunte dalle truppe alleate, residui della formazione che avevano effettuato i più feroci rastrellamenti e sbandati assetati di vendette.
Ecco una delle rabbiose terroristiche rappresaglie da parte dei repubblichini a Milano avvenuto al Campo Giuriati.
Al campo sportivo Giuriati di via Ponzio, il 14 gennaio 1945, vengono assassinati nove ragazzi del Fronte della Gioventù, un paio di settimane dopo, sempre nello stesso campo sportivo subiscono uguale sorte cinque valorosi combattenti della 3a Gap, tra cui comandante Luigi Campegi. Una decina di giovanissimi combattenti della libertà, la cui età variava tra i 18 al 22 anni, aveva costituito un nucleo di attività patriottica. Facevano riferimento un arsenale di armi e altro materiale costituito, in maniera rudimentale, il un orto di via Pomposa. All’inizio distribuivano volantini e inondavano di scritte antifasciste le mura della città, in seguito all’incalzare degli avvenimenti, avevano incominciato a disarmare soldati tedeschi e militi repubblichini e a compiere atti di sabotaggio.
Il battaglione Azzurro, che aveva sede in piazza Novelli, distintosi per la sua ferocia sanguinaria, cattura nel gennaio del 1945, dopo una spiata, il gruppo di via Pomposa. I giovani, dopo l’arresto, vengono portati al palazzo di giustizia, dove si svolge una delle più tragiche parodie di un procedimento giudiziario. Tra l’altro i ragazzi, dopo le udienze, vengono sempre affidati agli aguzzini del battaglione che li sottopone a tortura. Lo scopo è quello di estorcere loro informazioni e notizie. Ma dalla loro bocca non esce niente. Nessuno viene assolto. Solo coloro che non hanno ancora compiuto 18 anni non vengono condannati alla pena di morte.
Nel freddo mattino del 14 gennaio 1945, il Campo Giuriati (un rettangolo molto frequentato dai ragazzi di periferia per la bellissima pista per atleti) viene trasformato dai repubblichini di Salò in un mattatoio per uomini. Lì, in quel freddo mattino di gennaio, vengono fucilati i ragazzi di via Pomposa: Bozzoni Sergio, Botta Renzo, Capecchi Arturo, Giardino Roberto, Folli Attilio, Strani Giancarlo, Rossato Giuseppe, Rossi Luciano, Ricotti Roberto. Il partigiano Ricotti lascia un testamento spirituale scritto su un pezzo di carta da imballo recapitato alla zia dal carcere di San vittore il 13/1/1945:”Cari parenti, non piangete, io muoio per un grande ideale di giustizia. Ai miei compagni lascio la mia fede, il mio entusiasmo, il mio incitamento. Roberto”.
La mattanza viene replicata il 2 febbraio 1945, dopo un altro processo farsa contro i gappisti Luigi Campegi (capo della 3a Gap dal luglio al dicembre 1944), Venerino Mantovani, Oliviero Volpones, Vittorio Resti, Franco Mandelli.
Di fronte ai giudici Campegi consapevole di ciò che lo aspetta così esclama: “Io non riconosco in voi nessun diritto di giudicarmi, né del resto lo potete fare perché siete degli assassini che io, il capo dei Gap, vorrei poter condannare.”
La sentenza venne accolta al canto di “Bandiera Rossa”.
Il periodo che va dalla feroce sentenza al triste freddo mattino del 2 febbraio, è speso da Luigi Campegi in fraterna assistenza ai compagni di carcere. A molti dona qualcosa del poco che possiede. A tutti offre il suo sorriso e la certezza delle sue convinzioni. Regala il suo stesso abito. “Tanto – dice sereno – per morire non è necessario!”.
Dopo la sentenza scrive su un biglietto: “Cari amici, sono stato condannato alla pena capitale. Mi raccomando, non fatelo sapere ai miei genitori. Non piangete per me. Vado contento per 12 dei miei uomini. Spero di scrivervi ancora. Abbraccio tutti. Luigi”.
Dall’esterno i compagni fanno quanto è umanamente possibile per salvarlo: Nino Galassi fa miracoli. Invia staffette a Moscatelli perché prelevi ostaggi, tenta insieme a Ruggiero Brambilla la sostituzione di persona. Ma tutto è inutile.
Al mattino del 2 febbraio dal Palazzo di Giustizia parte un autocarro con Campegi, Resti, Volpones, Mantovani, Mandelli: destinazione Campo Giuriati.
Di fronte al plotone di esecuzione Luigi Campegi canta “Bandiera Rossa”.
Prima di essersi fucilato Campegi esprime un desiderio: che il suo soprabito venga donato a un povero. Viene accontentato.
Poi scandisce di fronte ai suoi aguzzini le sue ultime parole: “Quando l’Armata Rossa espugnerà Berlino deporrete sulla mia fossa una camicia rossa”.
Anche la sorte di Franco Luigi, Gino per gli amici, è legata al Campo Giuriati e all’assassinio del comandante Campegi e dei suoi compagni gappisti.
Gino abitava nelle case popolari di via Aselli 6 e aveva una grande passione per la bici da corsa. Le cronache giornalistiche lombarde anteguerra riportavano le sue numerosi vittorie conquistate sulle strade della Brianza. La sua specialità erano le volate, perché aveva buona gamba e i suoi avversari lo temevano soprattutto negli sprint finali. Di mestiere faceva l’incisore perché a quei tempi non si canpava con i soli pedali.
L’8 settembre è il giorno dell’Armistizio. Gino non ha dubbi, sceglie la libertà, la montagna e i partigiani. Poi verrà il tempo della città e dei Gap. Bisognava non dare tregua ai nemici della Gnr, della Muti, della decima Mas e della Wehrmacht. Il suo impegno è totale nella preparazione e nelle conseguenti azioni sappiste e gappiste. L’essere stato corridore ciclista professionista conosciuto e apprezzato per le sue vittorie gli consente, tra l’altro, di avere un permesso speciale rilasciato dalla Questura di Milano per circolare liberamente con la sua bici da corsa. Come il “grande Gino Bartali” il Gino Franco utilizza il suo velocipedi per nascondere, trafugate e trasportare documenti e materiale di propaganda nel telaio, in barba ai controlli polizieschi.
Intanto la Liberazione si avvicina e lo contro si fa più cruento. I nazifascisti sentono prossima la sconfitta e rispondono in modo sempre più vendicativo e spietato con rappresaglie e fucilazioni.
Sono passati solo due giorni dall’uccisione di Campegi e degli altri compagni. È il 4 febbraio 1945, bisogna rispondere all’ennesimo massacro del Giuriati. Sono in cinque quella sera: Gino, la sua ragazza Maria Selvetti, nome di battaglia “Lina”, Albino Ressi “Erminio”, Albino Trecchi “Bimbo” e Luigi Arcalini “Lince”. Il gruppo è affiatato, ha operato spesso assieme e sempre con successo. Dalla parte di corso Garibaldi, in via Pontaccio, c’è la mensa-covo della Ettore Muti da colpire. Ma qualcosa va storto. La bomba esplode anticipatamente e Gino, “Lina” e i suoi compagni non faranno più ritorno a casa. Prima di partire per l’azione Gino si è raccomandato all’amico partigiano “Nan” (Edoardo Clerici): “Se non mi vedrai tornare avvisa la mia mamma”.