Di seguito un resoconto della conferenza da noi organizzata, in data 13 Aprile, sul tema interessato dal referendum indetto per il 17 aprile, il cosiddetto “referendum trivelle”. L’esigenza di tale incontro è nata dalla constatazione dell’assenza di un dibattito serio, animato da figure competenti e preparate e che esprimesse entrambi i punti di vista, requisito fondamentale, a nostro giudizio, per un voto consapevole su un tema così complesso e sfaccettato e una questione così tecnica. A fine articolo sono inoltre disponibili e scaricabili le slide proiettate dai relatori.

Sono intervenuti:

Michele Giovannini – Moderatore
Docente di “Energy Law”

Ennio Macchi – per il No
Docente Emerito di “Conversione dell’energia”

Stefano Caserini – per il Sì
Docente di “Mitigazione dei cambiamenti climatici”

Presentazione dell'incontro

Presentazione dell’incontro organizzato da La Terna Sinistrorsa con i relatori

Intervento di apertura dei relatori

  • Su che cosa siamo chiamati a votare – professor Michele Giovannini

Il quesito del referendum recita, testualmente

Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?

La norma interessata, come si può vedere consultando la banca dati, aggiornata recentissimamente, è stata modificata 8 volte negli ultimi sei anni, a testimonianza della complessità e della delicatezza della materia. Ci si chiede, pertanto: è opportuno sottoporre a referendum, al giudizio dell'”uomo della strada” una questione così intricata? La risposta è che è un errore, un referendum posto con queste modalità stravolge l’istituto del referendum nelle sue finalità che sono quelle di aumentare la partecipazione democratica rispetto a scelte ritenute fondamentali. La tutela dell’ambiente lo è, ma il referendum non ci richiama a una scelta di coscienza. A tutelarci c’è chi ha le competenze per operare scelte fondamentali, anche in tema di ambiente e in particolare tra le ragioni dell’ambiente e dello sviluppo, spesso conflittuali. Il voto manca di valore aggiunto rispetto alla normale dinamica democratica e, anzi, estremizzando è un atto di violenza inflittoci dall’ordinamento, che in una vicenda così complicata impone a noi una scelta su una questione faticosa da decifrare.

Di fronte a questa constatazione la scelta di non andare a votare per non contribuire al raggiungimento del quorum appare non coraggiosa e poco “sfidante”, seppur legittima, è opportuno cercare di capire e contrastare il voto di coloro con i quali si è in disaccordo.

D’altro canto votare significa soggiacere alle “violenze” di una politica che tradisce la sua missione, rinunciando ad individuare il compromesso tra interessi contrapposti, che sia sostenibile in un certo momento storico alla luce della storia del diritto, della storia dell’economia e dei contesti territoriali. Concludendo, è giusto farsi un’idea e recarsi a votare, pur sapendo che il rischio di errore è elevatissimo.

  • Perché votare no – professor Ennio Macchi

Oggi demonizzati e sotto accusa, i combustibili fossili indubbiamente sono stati, sono e continueranno ad essere il principale motore dello sviluppo, e i progressi tecnologici, nell’arco di un paio di secoli in cui essi sono stati impiegati, sono stati formidabili anche in termini ambientali: l’inquinamento oggi di una centrale è di due ordini di grandezza inferiore a quello che era pochi decenni fa.

Analizzando i dati riguardanti il fabbisogno mondiale di energia relativi a 1993, 2011 e le proiezioni per il fabbisogno in futuro si nota un costante incremento della domanda di energia: il mondo richiede sempre più risorse energetiche, fondamentali per lo sviluppo. Questa richiesta, anche viste le attuali disuguaglianza, è pienamente etica.

I dati sul mix energetico relativi agli stessi anni evidenziano inoltre come i rapporti percentuali tra le varie fonti cambino molto lentamente. La quota delle rinnovabili sta complessivamente aumentando, ma l’utilizzo dei combustibili fossili è ingente rispetto al fabbisogno richiesto. In particolare a livello mondiale il 30% del fabbisogno è coperto da fonti rinnovabili o comunque a zero emissioni (cioè includendo anche il nucleare), il restante 70% da fonti che prevedono combustione (ivi compresi i combustibili fossili). Per quanto riguarda poi la situazione italiana, chiaramente la più coinvolta nel referendum possiamo dire che senza dubbio si auspichi una transizione verso le rinnovabili e un aumento dell’efficienza energetica, ma è una transizione lunga e difficile che, affinché possa avvenire devono potersi ottenere grandi miglioramenti tecnologici che rendano le fonti rinnovabili economicamente competitive (cosa che oggi si verifica molto di rado).

In Italia consideriamo i dati in possesso del GSE (l’ente nazionale che si occupa di fonti energetiche rinnovabili curandone il monitoraggio e regolandone gli incentivi economici). Il totale fornito dalle fonti rinnovabili per il 2015 (stima provvisoria) è circa di 106000 GWh, a fronte di una domanda complessiva superiore ai 300000 GWh. In altre parole, il risultato (brillante!) è che in Italia si produce più del 30% di energia elettrica da fonti rinnovabili. La parte preponderante di questa quota è quella dell’energia idroelettrica, che aumenta o diminuisce a seconda della piovosità. Si osserva anche un formidabile incremento del solare (sostanzialmente fotovoltaico), un aumento un comunque importante dell’eolico e una sostanziale stasi delle altre. Il grafico però mostra anche che negli ultimi 2-3 anni l’incremento si è smorzato. Questo perché gli incentivi economici che hanno favorito l’incremento di impianti bastati su rinnovabili costa al contribuente cifre dell’ordine dei 12-13 miliardi di euro (cifre pesanti che difficilmente potranno continuare a crescere negli anni).

Per quanto riguarda gli aspetti che più da vicino riguardano il referendum va poi osservato che se neghiamo l’autorizzazione alle concessioni di cui si parla, quelle entro le 12 miglia, di operare oltre la scadenza (per alcune piattaforme anche molto vicina), aumenta la nostra dipendenza dall’estero (il gas arriva spesso da nazioni fortemente a rischio), e il pericolo di un taglio delle forniture per qualche crisi politica non è da escludere o sottovalutare. Avere una riserva di gas nazionale potrebbe, pertanto, giocare un ruolo importante. Inoltre non rinnovare le concessioni (se vince il Sì) non implicherà una maggior diffusione delle rinnovabili: se abbiamo i fondi e le capacità di aumentare il contributo delle fonti rinnovabili, ciò va fatto comunque, a prescindere dalla chiusura o no delle concessioni offshore. L’impatto della chiusura avrebbe chiaramente poi un impatto importante sull’industria degli idrocarburi, estremamente avanzata e apprezzata in tutto il mondo, un vanto per il nostro Paese, che dà lavoro a un numero di persone compreso tra 8000 e 12000. In ogni caso, che passi il referendum o che non passi, non esiste la possibilità che sia scavato un nuovo pozzo entro le 12 miglia dalla costa, è già stato escluso e si potrà solo lavorare su giacimenti già esistenti e perforati. Sul fronte del regime autorizzativo e sul fronte dei controlli ambientali, inoltre, la nostra legislazione è molto complessa ed esigente: chi vuole operare nel settore deve effettuare studi e presentare progetti per convincere le autorità che quello che si ha intenzione di fare ha un impatto ambientale accettabile (ovviamente nessuna operazione è esente da qualche rischio ambientale, ma questi rischi sono assolutamente minimi), ad oggi le coste italiane sono considerate acque pulite, l’attività di pesca e turistica non ha subito alcun danno dall’esistenza delle concessioni in oggetto.

Per concludere: è giusto e sensato avere un tesoretto sul fondo del mare (stimato da economisti dell’ordine dei 6 miliardi di euro) che dobbiamo smettere di sfruttare e lasciare per sempre nel fondo del mare senza utilizzarlo? È una scelta pericolosa senza nessuna vera ragione!

Un’altissima partecipazione da parte degli studenti, sia come partecipanti nelle due aule messe a disposizione che con la diretta streaming

  • Perché votare Sì – Professor Stefano Caserini

Il tema principale è quello del cambiamento climatico, cruciale sfida per i prossimi decenni. Per avere un quadro della situazione osserviamo il dato attuale della concentrazione di CO2 in atmosfera. Confrontando i dati di marzo 2016 con quelli di marzo 2015 notiamo che essa è salita di 3.23 ppm, aumento importante se si considera che le concentrazioni di CO2 in anni 60-70 aumentavano di 1 ppm/anno e negli ultimi anni 2 ppm/anno. Osservando le temperature, poi, nel 2015 abbiamo assistito a un record nell’altezza delle temperature rispetto ai livelli preindustriali.

Nel futuro, continuando sulla strada su cui siamo ora, avremo un riscaldamento di 5-6°C, valori al fuori dalla storia del clima degli ultimi milioni di anni. Tra gli scenari riassunti dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ce n’è uno solo che ci porti a stare sotto i 2°C di aumento della temperatura rispetto ai livelli preindustriali (al termine della conferenza di Parigi 198 capi di stato hanno deciso che l’obiettivo della politica climatica internazionale sarà limitare l’aumento della temperatura entro i 2°C, facendo sforzi per restare su 1.5°C). La strada è perciò tracciata e anche in Italia ci siamo presi l’impegno (esplicitato dal ministro Galletti) per restare sotto un aumento di 1.5°C (facciamo notare che i danni all’ecosistema sono già presenti allo stato attuale, in cui la temperatura è aumentata di “solo” 1°C rispetto ai livelli preindustriali).

Si è trovato che c’è una relazione lineare tra le emissioni cumulate e l’aumento di temperatura. In questo modo è possibile calcolare analiticamente il “budget” di carbonio, sotto forma di CO2, che è possibile emettere in atmosfera se l’obiettivo è restare sotto i 2°C: questa quantità è pari a 3000 miliardi di tonnellate di CO2 ; di questi, 2000 miliardi sono già stati emessi, quindi noi e tutti in futuro abbiamo a disposizione  1000 tonnellate da poter emettere, e al giorno d’oggi ne emettiamo 35 all’anno, tra 30 anni di questo passo il budget è chiuso. Per contenere l’aumento entro 1.5°C si scende a 2200 tonnellate e ne rimarrebbero pertanto 200, un obiettivo praticamente irraggiungibile.

Quindi se vogliamo cercare di raggiungerlo dobbiamo fare a meno, con una rapidità senza precedenti, dei combustibili fossili, o usarli senza emettere CO2 (per farlo esiste, ma ancora in fase di sperimentazione, una tecnologia detta carbon capture and storage). Quantificando in termini di risorse non ancora sfruttate 5/6 e più dei combustibili fossili va lasciato sottoterra. Se si crede nell’accordo di Parigi, in altre parole, il carbone è morto. Guardandola da un altro punto di vista: c’è una certa quantità limitata di centrali termoelettriche convenzionali a combustibili fossili che possiamo costruire, questa quantità sarà raggiunta in teoria nel 2017 per restare entro i 2°C di aumento. Il mondo della finanza ha peraltro posto attenzione sulla “bolla del carbone”, dovuta al fatto che molte delle quantità ancora nel sottosuolo sono incluse nel bilancio delle industrie del settore, perciò si ipotizza una bolla del carbonio affine a quella dei subprime, quindi si sta cominciando a diversificare il portafoglio degli investimenti.

In sintesi se crediamo nell’accordo di Parigi la transizione non dovrà essere lunga e difficile ma breve. Un uso drasticamente ridotto delle fonti fossili significa minor inquinamento dell’aria, più posti di lavoro, diverse tensioni geopolitiche, minore dipendenza energetica. Tante cose possono essere fatte anche relativamente immediatamente. Non è semplice ma è possibile, ed è questione di scelte politiche (ad esempio far pagare al sistema dei combustibili fossili quello che deve, togliendo i sussidi, non far sì che metà petrolio sia estratto senza pagare royalties: se si pagassero i costi ambientali il sistema più velocemente uscirebbe di scena), anche se la consapevolezza che il tempo della transizione sia giunto non è diffusa. Il sistema fossile è inevitabilmente destinato al capolinea per decisione di 198 capi di stato e va perciò gestita l’exit strategy. Grattare l’ultimo fondo del barile non ci aiuterà se dobbiamo uscire dai combustibili fossili.

Un'altissima partecipazione da parte degli studenti, sia come partecipanti nelle due aule messe a disposizione, che con la diretta streaming.

Fra collegamenti online e partecipanti nelle aule siamo arrivati ad una copertura di più di 3.000 persone.

Domande raccolte tra gli studenti

  • Qual è il significato e la conseguenza in concreto che deriverà il giorno dopo il referendum? Con l’abrogazione tornerebbe valido l’articolo 9  comma 8 della legge 9/91 a regolamentare la proroga delle concessioni?

Risponde il professor Giovannini

Ci chiediamo se abrogando questa norma riviva il vecchio articolo 9 che diceva che alla scadenza della concessione al concessionario può essere concessa una (o più) proroghe di 5 anni ciascuna se ha eseguito i programmi di coltivazione, se ha rispettato le condizioni in base alle quali questa concessione gli è stata rilasciata, se ha dimostrato che rispetta l’ambiente etc.

Se vince il sì, abrogando la “nuova” norma che di fatto bloccava l’applicazione di questa “vecchia” norma senza però avere adoperato quella “nuova”, allora tale norma ritorna ad essere applicata? Se vincono i sì si chiudono gli impianti oppure si incoraggia un passaggio che porterà al termine le concessioni in essere?

Per rispondere bisogna pensare a che cosa succede “dopo”: visto che le concessioni sono scadute, se il giacimento è ancora utilizzabile si può immaginare un sistema che consenta di sfruttarlo fino a esaurimento, oppure a fine concessione l’attività si interrompe? La questione è un po’ dubbia ma è facile che sia vera la prima opzione: non è detto che al termine delle concessioni in essere il pozzo venga abbandonato e chiuso.

È significativo il fatto che questo quesito sia promosso non dai cinquecentomila elettori, ma dalle regioni che manifestano malcontento verso il governo, perché non stanno avendo voce in capitolo sulle scelte di politica energetica fatte a livello statale, c’è il sospetto che le regioni non abbiano a cuore ragioni di carattere ambientale, ma che il referendum sia una lotta di potere decisionale tra stato e regioni. Ai sostenitori del sì va fatto osservare che non è detto che votando sì ci sia la certezza che questi pozzi saranno chiusi, in primo luogo arriveranno sicuramente a scadenza e inoltre non è affatto detto che le regioni, che nel frattempo potrebbero essere tornate titolari di quel potere a seguito di modifiche della norma, poi decideranno effettivamente di smantellare e chiudere quegli impianti. Sarebbe auspicabile che questa questione fosse trattata con la dignità che si merita e non come un voto pro o contro il governo. La sensazione è che ci stiamo affaticando per un risultato simbolico importante ma concretamente con effetti minimi sul risultato complessivo.

  • A livello di impatto ambientale complessivo quali sono le criticità delle piattaforme estrattive interessate dal referendum? Questi numeri sono stati stimati?

Rispondono i professori Macchi e Caserini

Professor Macchi: una parte significativa di concessioni sono in scadenza e in tempi abbastanza brevi (pochi anni). Se vincesse il Sì è probabile che queste scadenze diventerebbero anche più brevi, perché le compagnie petrolifere, sapendo di non poter rinnovare la concessione, tenderebbero piuttosto a dismettere questi prelievi in tempi anche più brevi. Da un punto di vista di inquinamento: quando sono state fatte queste concessioni sono stati eseguiti studi ambientali molto seri che sono stati approvati da autorità competenti, esistono rilievi ambientali continui intorno a queste piattaforme, non si sono verificati incidenti tranne uno piccolo, gli sversamenti nel mare sono assolutamente trascurabili in termini generali, in poche parole a livello ambientale chiudere o non chiudere non cambia la situazione del nostro mare. Questa è inoltre la posizione per cui è normale nel mondo realizzare piattaforme per estrarre idrocarburi da ogni tipo di mare.

Professor Caserini: è vero che i rischi sono limitati rispetto agli sversamenti delle petroliere e quila probabilità è sicuramente bassa, ma il rischio è dato dal prodotto della probabilità per la magnitudo (“cosa succede se succede?”), in un mare chiuso come il Mediterraneo il danno può essere rilevante pur se la probabilità è bassa. C’è poi il fenomeno della subsidenza, che, pur se in gran parte è legata all’emungimento di acqua, alcuni studi mostrano sia anche legata all’estrazione del metano; l’abbassamento del fondale avviene in una zona già critica anche considerato il futuro innalzamento dei mari. Le emissioni acustiche possono infine danneggiare i cetacei ma questo è effettivamente un tema di nicchia.  Infine si evidenzia che ci sono alcune concessioni il cui permesso non è ancora scaduto, che andranno avanti, perché tale permesso è stato chiesto prima del referendum. Ci saranno invece concessioni che scadranno (17) per l’estrazione di gas o petrolio con scadenza dal 2017 in poi e non potranno essere prorogate, ma al loro interno può essere ancora realizzata qualche trivellazione (meno probabile effettivamente, come detto precedentemente, se la scadenza ci sarà), si tratta di quantitativi molto piccoli, residuali, se vengono tenute aperte è probabilmente per evitare i costi di smantellamento.

  • Domanda sui costi di smantellamento

Rispondono i professori Caserini e Macchi

Professor Caserini: le industrie del settore non sono interessate a far scadere le concessioni: i soldi che vengono pagati dalle industrie allo Stato sono in forma di royalties con una franchigia sotto la quale non si paga nulla. Queste franchigie non sono basse (80 milioni di metri cubi di gas e 50 mila tonnellate di petrolio all’anno). Le 26 concessioni di gas entro le 12 miglia, estraggono complessivamente 1200 milioni di metri cubi, da cui si può ricavare una produzione media di 46 milioni di metri cubi l’anno, mediamente sotto la franchigia. Cinque concessioni superano la franchigia e producono il 90%; c’è poi un 10% che non paga nulla, si tratta di 500 mila metri cubi all’anno che non pagano royalties, su 1.2 milioni (il 40%). Si capisce chiaramente come a costoro interessi produrre poco per tanti anni per stare sempre sotto al franchigia. Complessivamente (cioè includendo i dati anche per piattaforme installate oltre le 12 miglia) il 63% della quantità di combustibile estratto è stato prodotto senza pagare le royalties allo Stato. Alle industrie interessa solo non affrontare oggi i costi di smantellamento, è quindi  un sussidio mascherato ai combustibili fossili. Non c’è un motivo per cui non ci sia un termine come per tutte le altre concessioni (autostrade, spiagge, etc).

Professor Macchi: va precisato che quando si estrae un idrocarburo si paga una royalty nei termini definiti in precedenza, però nel mondo internazionale a contare non è tanto la royalty quanto il termine TGT (total government takeover), che quantifica il denaro incassato dallo Stato dal prelievo degli idrocarburi. Con quello che si paga in Italia di tasse quel valore diventa il 50-60% dei ricavi (dipende dagli attivi della compagnia). Tornando alla questione smantellamento: quando ci sarà la scadenza della concessione, le industrie dovranno presentare un piano di sviluppo e gestione del giacimento con proiezioni sulla futura produzione e sull’impatto ambientale che può avere, non è un rinnovo automatico ma qualcosa che dovrebbe essere ben gestito dalle autorità competenti. Infine è importante sottolineare che un giacimento  esaurito è molto più facile da chiudere perché ha poca pressione. Anche quel remoto rischio di immissione in mare di grandi quantitativi di petrolio non si presente, perché si tratta normalmente di pressioni inferiori al battente idrostatico. In parole povere, se un pozzo è a 100 m di profondità, ci sono 100 atmosfere di pressione che ne impediscono la fuoriuscita, perciò incidenti drammatici come quelli che si sono verificati ad esempio nel Golfo del Messico sono estremamente improbabili.

Il dibattito è poi continuato in forma di dibattito aperto e sono state raccolte domande poste direttamente dagli studenti presenti in aula, con lo scopo di chiarire il più possibile i dubbi su questo tema che, come è stato più volte ricordato, è estremamente tecnico e purtroppo poco dibattuto e poco considerato dalla politica. L’augurio è dunque quello che, qualsiasi siano le vostre intenzioni di voto, la vostra sia una scelta consapevole e ragionata, e ci renderebbe un po’ orgogliosi sapere che questo è in parte merito dell’incontro che abbiamo organizzato. A tal proposito vi invitiamo ad usufruire del materiale reso disponibile dai docenti che trovate linkati di seguito e di rivedere la registrazione dell’incontro effettuata sul nostro canale youtube.

MATERIALE INFORMATIVO