Testimonianze del 25 aprile 1945
Tra i docenti che si impegnarono con grande vigore prima contro la dittatura fascista e in seguito nella lotta resistenziale e nell’insurrezione di Milano va ricordato il professore di chimica organica Mario Alberto Rollier, nome di battaglia “Adami”, attivo in Giustizia e Libertà, e chiamato da Ferruccio Parri a far parte del Comando Volontari della Libertà (Cvl).
L’antifascismo del professor Mario Alberto Rollier è di antica data e risale al momento in cui la dittatura sembrava inossidabile e granitica. Arriva al Politecnico come assistente del professor Giuseppe Bruni, direttore dell’Istituto di chimica generale. Repubblicano laico, aderisce a Giustizia e Libertà per poi migrare nel Partito d’Azione .
Già firmatario con Gianfranco Mattei del manifesto per la rigenerazione della vita universitaria italiana su nuove basi e per la conquista della libertà e della democrazia perduta a causa del fascismo, il 4 luglio del 1943, a casa sua in via Poerio 37, diede vita al Comitato unitario antifascista del quale facevano parte tutti i partiti di opposizione. Nello stesso anno fonda il Movimento Federalista Europeo con Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Franco Venturi e tanti altri. In via Poerio 37, una targa murata quarant’anni dopo l’evento, ricorda che lì, 27 agosto 1943, in casa di Mario e Rita Rollier, fu fondato il Movimento Federalista Europeo.
Al politecnico accanto a Mario Alberto Rollier, troviamo tra gli animatori più attivi, oltre a Gianfranco Mattei, due assistenti di architettura, i professori Giulio Minoletti e Giancarlo Palanti.
Composita è poi la schiera di studenti, laureati e docenti che all’indomani della nascita della Repubblica di Salò decisero di non aderirvi, chi andando nelle formazioni partigiane, chi scegliendo altre vie.
Tra gli altri studenti del Politecnico che scelsero la montagna e la lotta partigiana troviamo in Val d’Ossola la medaglia d’oro al valore Filippo Beltrami e Federico Marescotti: il primo architetto, il secondo ingegnere, caduti entrambi in combattimento nel 1944. In altre zone operarono Luigi Canzanelli (tenente Lino) e Carlo Cerini (medaglia d’oro al valore) caduti entrambi per mano nazifascista dopo una serie di rocambolesche vicende.
Altri finirono deportati per motivi politici nei campi di sterminio come Antonio De Finetti a Hersbruck e Mario Bobbio a Mauthausen da cui non fecero più ritorno.
Per altri 23 studenti arruolati in Marina e distanza dell’isola di Brioni, all’indomani dell’8 settembre si pose la scelta di collaborare con i tedeschi e aderire alla Repubblica di Salò. Tutti insieme decisero di rifiutare ogni rapporto con i nazifascisti e finirono in un campo di concentramento tedesco. I 23 fortunatamente riuscirono a tornare dal lager, ma non bisogna dimenticare che dei 660.000 militari italiani deportati nei lager tedeschi ben 50.000 morirono a causa delle vessazioni, dei lavori forzati, del denutrimento, delle condizioni igieniche e delle malattie conseguenti.
All’indomani dell’8 settembre si costituì una enclave culturale e scientifica di studenti e docenti italiani fuoriusciti in Svizzera. In varie città della confederazione (Losanna, Neuchatel, Friburgo, Ginevra, e in seguito a Murren e Huttwil) vennero creati veri e propri campus universitari dove si tenevano corsi e lezioni. Erano frequentati da un migliaio di studenti e decine di insegnanti tra i quali ritroviamo Mario Giacomo Levi, ordinario di chimica industriale, allontanato nel 1938 dal Politecnico a causa delle leggi razziali, e altri docenti che coraggiosamente si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò.
Né va dimenticato lo studente del Politecnico Franz Giorgio Roesler, morto in combattimento nei giorni dell’insurrezione. Aveva solo 20 anni quando cadde di fronte agli stabilimenti dell’Innocenti. Così lo ricorda sua madre in una sua lettera del 22 maggio 1945 indirizzata all’Università milanese, ad un mese dalla sua scomparsa:
Alla direzione del Politecnico di Milano. Il mio grande, sconfinato dolore non è disgiunto dall’orgoglio e dalla fierezza di aver donato alla Patria, perché risorgesse più grande e più nobile, quanto avevo di più caro al mondo. Mio figlio, Giorgio, iscritto al primo anno del triennio di applicazione di Ingegneria Civile, è deceduto il 28/4/1945 in seguito a ferite riportate in combattimento contro i nazifascisti. Nel cielo degli eroi, aleggia all’anima sua purissima. Da lassù addita la meta perseguita con tanta dedizione, con infinito amore e con incrollabile fede: i fratelli rimasti, lo seguiranno. Ne è certa la mamma. Paola Roesler Franz. Piazza Libia 4.
Altri studenti del Politecnico, come lo studente Franco Fiocca, dopo l’esperienza amara della guerra mussoliniana scelsero di entrare nella Resistenza. Inviato come sottotenente della 33ª batteria del gruppo Bergamo degli alpini sul fronte russo, durante la tragica ritirata viene ferito da una scheggia al viso. Rischia di morire per setticemia, ma gli è provvidenziale il grande gelo che gli evita la diffusione dell’infezione. È in quel terribile contesto che consolidò una profonda amicizia con il sottotenente Teresio Olivelli, un uomo speciale per umanità e altruismo con i suoi compagni d’armi durante la maledetta ritirata e organizzatore delle Fiamme Verdi a Milano. Il giovane Fiocca, iscritto al terzo anno di ingegneria elettrotecnica, chiamato di nuovo alle armi dopo l’8 settembre si rifiuta di aderire all’esercito di Salò ed entra a far parte con l’amico Olivelli delle cattoliche Fiamme Verdi. Partecipa alla diffusione e al trasporto della stampa clandestina de “il ribelle”. Raccoglie fondi per il movimento resistenziale e organizza la distribuzione di documenti falsi per i fuggiaschi. Forte poi della conoscenza della montagna e di una valida esperienza alpinistica, guida gruppi di prigionieri inglesi fuggiti dalle tradotte che dovevano condurli nei campi di concentramento tedeschi, da Madonna dei Monti in Valfurva verso il territorio svizzero. Una spiata lo porta a San Vittore con l’accusa di banda armata, spionaggio e sabotaggio. Così il giovane partigiano cattolico ricorda quei momenti dopo l’arresto avvenuto nella casa paterna di corso di Porta Nuova 42:
La stanza mi impaurì per alcuni particolari dell’arredamento: il tavolo malfermo dietro il quale era seduto il dott. Ugo (Ugo Osteria, commissario dell’Ovra e collegamento tra la polizia repubblichina e le SD tedesche), le quattro sedie sgangherate su una delle quali fui fatto sedere, le pareti piene di macchie di colori indefinibili tra le quali spiccava uno spruzzo d’inchiostro nero, segno che, in un precedente interrogatorio, un calamaio era stato lanciato contro l’interrogato evitato dallo stesso e finito contro la parete alle mie spalle. Temevo che in quella stanza gli interrogatori avrebbero potuto svolgersi anche in modo… movimentato; mi aspettavo quindi di essere picchiato perché dicessi nomi di ‘complici’, ma mi consolavo pensando che, se mi avessero colpito la faccia, sarei subito svenuto grazie alla ferita di Arnautowo e alla relativa frattura da poco consolidata. Le probabilità di tradire qualche amico sarebbero state minime.
L’interrogatorio si basa su richieste di informazioni di compagni del Politecnico e soprattutto si contatti con un certo Claudio Sartori, che io affermai di non conoscere e che era, con Olivelli, il capo di tutta l’attività clandestina delle Fiamme Verdi a Milano. Il dott. Ugo non mi picchiò e neppure mi minacciò; finito l’interrogatorio mi lasciò solo qualche minuto, tempo sufficiente per riflettere sulle gravissime accuse formulate a mio carico (ciascuna delle quali, se provata, comportava la pena di morte): costituzione di banda armata, spionaggio e sabotaggio. Le DS tedesche mi videro solo; altezzosamente rimproverarono gli agenti italiani di avermi lasciato un’eccessiva libertà e iniziarono la ‘cerimonia’ che precede ogni associazione al carcere: ritiro e verbalizzazione dei documenti e dei soldi posseduti (non avevo né gli uni né gli altri), perquisizione, consegna della cintura dei pantaloni, della cravatta e delle stringhe delle scarpe. Mi affidarono quindi una guardia carceraria, tanto silenziosa da sembrare muta, che mi condusse all’ufficio matricola, diretto da un recluso, professore della Feltrinelli; egli mi assegnò un numero (2276) e una cella (48) del quinto raggio e mi consegnò un camicione a righe verticali bianche e marroni da indossare subito. Il cammino dell’interno della prigione mi sembrò lungo: passammo un imprecisato numero di cancelli e, giunti alla ‘rotonda’, imboccammo il quinto raggio e raggiungemmo la mia cella: mi aspettavo dalla guardia una serie di istruzioni o almeno una parola, invece niente. Aperta la porta, con lo stesso battente fui spinto della cella e, mentre dentro di me cresceva l’angoscia, alle mie spalle venivano rumorosamente richiusi i due chiavistelli. Senti la guardia allontanarsi, poi il frastuono dei cancelli aperti e richiusi della ‘rotonda’, poi il silenzio.