Sentenza N. 01348/2013 REG.PROV.COLL.

N. 01998/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia

(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1998 del 2012, proposto da:

Adriana Angelotti, Anna Maria Antola, Anna Anzani, Sergio Arosio, Cesare Mario

Arturi, Francesco Augelli, Valeria Bacchelli, Arturo Baron, Francesco Basile,

Giovanni Baule, Eleonora Bersani, Serena Biella, Antonello Boatti, Pellegrino

Bonaretti, Marco Borsotti, Federica Boschetti, Maria Antonietta Breda, Maria

Agostina Cabiddu, Enrico Gianluca Caiani, Christian Campanella, Fabrizio Campi,

Paola Caputo, Edoardo Carminati, Aldo Castellano, Graziella Leyla Ciagà, Maria

Antonietta Clerici, Luigi Pietro Maria Colombo, Giancarlo Consonni, Emilia

Amabile Costa, Fiammetta Costa, Stefano Crespi Reghizzi, Giancarlo Cusimano,

Alessandro Dama, Lorenzo De Stefani, Anna Caterina Delera, Valentina Dessì, Luca

Maria Francesco Fabris, Maria Rita Ferrara, Alessandro Ferrari, Simone Ferrari,

Maria Fianchini, Mario Fosso, Marco Frontini, Gianluca Ghiringhelli, Lorenzo

Giacomini, Maria Cristina Gibelli, Elisabetta Ginelli, Giorgio Goggi, Elena

Granata, Francesco Ermanno Guida F, Franco Guzzetti, Valeria Maria Iannilli,

Maria Pompeiana Iarossi, Arturo Sergio Lanzani, Rita Maria Levi Marinella,

Andrea Lucchini, Marco Lucchini, Cesira Assunta Macchia, Luca Piero Marescotti,

Emilio Matricciani, Stefano Valdo Meille, Lorenzo Mezzalira, Marina Molon, Laura

Montedoro, Gianni Ottolini, David Palterer, Antonella Valeria Penati, Gianfranco

Pertot, Paolo Pileri, Silvia Luisa Pizzocaro, Marco Politi, Gennaro Postiglione,

Fulvia Anna Premoli, Maurizio Quadrio, Procopio Luigi Quartapelle, Giuliana

Ricci, Fabio Rinaldi, Roberto Rizzi, Michela Rossi, Raffaele Scapellato, Aurora

Scotti Aurora, Roberto Giacomo Sebastiano, Maria Beatrice Servi, Francesco

Siliato, Maria Cristina Tanzi, Fausto Carlo Testa, Enrico Tironi, Maria Cristina

Tonelli, Graziella Tonon, Raffaella Trocchianesi, Michele Ugolini, Ada Varisco,

Vincenzo Varoli, Stefania Varvaro, Massimo Venturi Ferriolo, Daniele Vitale,

Fabrizio Zanni, Salvatore Zingale, Luca Alfredo Casimiro Bruchè, Alessandro

Antonio Porta, rappresentati e difesi dall’avv. Maria Agostina Cabiddu, con

domicilio eletto presso Maria Agostina Cabiddu in Milano, piazza Duse, 1;

contro

Politecnico di Milano, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura

Distrettuale dello Stato di Milano, presso i cui Uffici domicilia in Milano, via

Freguglia, 1;

Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca, rappresentato e

difeso ex lege dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato Milano, presso i cui

Uffici domicilia in Milano, via Freguglia, 1;

nei confronti di

Ministero dell’Economia e delle Finanze, Presidenza del Consiglio dei Ministri;

per l’annullamento

della delibera, adottata dal Senato accademico del Politecnico di Milano in data

21 maggio 2012,; delle delibere di approvazione delle Linee strategiche di

Ateneo 2012-2014;

delle prime azioni sull’internazionalizzazione dell’Ateneo;

di tutti gli atti connessi.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Politecnico di Milano e di

Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Designato relatore nell’udienza pubblica del giorno 26 marzo 2013 il dott.

Fabrizio Fornataro e uditi per le parti i difensori come specificato nel

verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

I ricorrenti impugnano gli atti indicati in epigrafe, deducendone

l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere sotto diversi

profili, chiedendone l’annullamento.

Si è costituito in giudizio il Politecnico di Milano, eccependo

l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza del ricorso avversario.

Le parti hanno prodotto memorie e documenti.

All’udienza del 26 marzo 2013 la causa è stata trattenuta in decisione..

DIRITTO

1) Sul piano fattuale va osservato che:

– con deliberazione del 15 dicembre 2011, il Senato accademico del Politecnico

di Milano ha approvato le linee strategiche per il biennio 2012 – 2014,

prevedendo, tra l’altro, la configurazione di un Ateneo a rilevanza

internazionale, con aumento dell’internazionalizzazione del corpo docente in

modo da assicurare che entro il 2014 “almeno 100 insegnamenti siano tenuti da

docenti stranieri”. In tale contesto le linee guida hanno stabilito

l’attivazione a partire dall’anno 2014 delle lauree magistrali e dei dottorati

di ricerca “esclusivamente in inglese”, con conseguente sviluppo di un piano

integrato per la formazione dei docenti e il conseguente sostegno agli studenti;

– con deliberazione datata 20 dicembre 2011, anche il Consiglio di

Amministrazione del Politecnico di Milano ha approvato le linee strategiche per

il biennio 2012 – 2014;

– con deliberazione del 23 gennaio 2012, il Senato accademico ha deliberato le

“prime azioni sull’internazionalizzazione dell’Ateneo”, individuando alcune

priorità per l’attuazione delle linee strategiche 2012 – 2014, riferendosi

all’identificazione dei fabbisogni formativi per i docenti in ordine all’uso

della lingua inglese nella didattica, al fine di attivare i corrispondenti

processi di formazione, nonché agli interventi relativi al reclutamento dei

docenti stranieri e, infine, alla determinazione del livello minimo di

conoscenza della lingua inglese che è opportuno richiedere agli studenti, sia a

livello di laurea magistrale, sia a livello di dottorato di ricerca;

– in data 2 maggio 2012 numerosi docenti e ricercatori del Politecnico hanno

presentato un appello al Rettore e agli organi di governo dell’Ateneo a difesa

della libertà di insegnamento, chiedendo di non dare seguito alle delibere

recanti l’approvazione delle linee strategiche di Ateneo per il biennio 2012 –

2014, di sospenderne l’efficacia e di disporne la revoca nella parte in cui

hanno imposto l’uso esclusivo della lingua inglese per l’insegnamento dei corsi

di laurea magistrali a partire dall’anno accademico 2014. Le ragioni poste a

fondamento dell’appello possono essere così sintetizzate: 1) l’uso esclusivo

della lingua inglese per l’erogazione dei corsi di laurea magistrale è in

contrasto con il principio della libertà di insegnamento posto dall’art. 33

Cost., perché comprime la libertà di scelta di docenti e studenti e il

pluralismo dell’offerta formativa; 2) le linee guida introducono un criterio di

discriminazione su base linguistica, in violazione del principio di uguaglianza

di cui all’art. 3 Cost., con effetti sulle carriere del personale docente e su

quelle degli studenti; 3) le linee guida, da un lato, contrastano con l’art. 271

del r.d. 1933, n. 1592, nella parte in cui stabilisce che la lingua italiana è

la lingua ufficiale dell’insegnamento e degli esami in tutti gli stabilimenti

universitari, dall’altro, stravolgono il senso dell’art. 2, comma 2, della legge

240/2010 che, nel promuovere l’internazionalizzazione dell’Università, mira a

promuovere l’integrazione fra le culture e non ad imporne una a scapito delle

altre; 4) l’imposizione della lingua inglese non si correla alla valorizzazione

della qualità degli insegnamenti impartiti.

– sempre in ordine ai contenuti delle linee guida approvate dal Senato

accademico il 15 dicembre 2011, sono stati presentati una mozione della Scuola

di architettura e società in data 3 maggio 2012, una lettera redatta da un

docente e datata 1° maggio 2012, un parere di alcuni rappresentanti degli

studenti formulato il 20 maggio 2012;

– in relazione al contenuto dei documenti appena richiamati è stata indetta una

riunione del Senato accademico il giorno 21 maggio 2012 (cfr. doc. 9 di parte

resistente), articolatasi nell’illustrazione dell’appello da parte di uno dei

docenti firmatari, nell’esposizione della posizione della Scuola di architettura

e società ad opera di un altro docente e nello svolgimento della discussione.

Dal verbale della seduta del 21 maggio 2012, risulta che all’esito della

discussione il Senato accademico ha approvato a maggioranza la mozione centrata

sull’adozione della lingua inglese per i corsi di laurea magistrale e di

dottorato di ricerca.

2) Devono essere esaminate con precedenza le eccezioni preliminari di rito

sollevate dall’Avvocatura distrettuale.

2.1) Con la prima eccezione si deduce l’inammissibilità del ricorso per

tardività, in quanto le linee strategiche approvate con la deliberazione del

Senato accademico del 15 dicembre 2012 sono state contestate solo mediante

l’impugnazione della successiva deliberazione del 21 maggio 2012, che però

sarebbe priva di contenuto innovativo o anche solo attuativo delle linee

strategiche, essendosi limitata a ripercorrere le ragioni della scelta già

effettuata.

L’eccezione non può essere condivisa.

La difesa del Politecnico sostiene che la deliberazione del 21 maggio 2012

sarebbe priva di reale autonomia, limitandosi a confermare le linee strategiche

già approvate, con conseguente tardività della loro contestazione, perché

articolata solo in sede di impugnazione della deliberazione ora richiamata.

Si tratta di una impostazione che non tiene conto dei contenuti della

deliberazione del 21 maggio 2012 e delle ragioni sottese alla sua adozione.

Sul punto va richiamata la distinzione, consolidata a livello giurisprudenziale,

tra atto di conferma e atto meramente confermativo, con i conseguenti riflessi

in punto di tempestività dell’impugnazione.

Sussiste un atto meramente confermativo (c.d. conferma impropria) quando

l’amministrazione, in esito ad una istanza di revoca di un suo precedente

provvedimento, si limiti a dichiararne l’esistenza, senza compiere alcuna nuova

istruttoria e senza una nuova ponderazione degli interessi pubblici e privati

implicati nella fattispecie.

Si ha, invece, conferma in senso proprio allorché l’amministrazione, in luogo di

limitarsi ad una constatazione dell’esistenza di un precedente provvedimento,

dia inizio a un vero e proprio procedimento di riesame, esaminando nuovamente la

situazione di fatto e di diritto.

In altri termini, in caso di mera conferma, l’amministrazione si esime dal

prendere posizione sulle questioni sollevate con la nuova istanza, limitandosi

ad un rifiuto pregiudiziale di riesame, con il quale nega, anche implicitamente,

l’esistenza delle condizioni per valutare il merito dell’istanza stessa;

insomma, l’amministrazione si limita a rilevare che esiste un precedente

provvedimento e che non vi sono ragioni per ritornare sulle proprie decisioni.

Per queste sue caratteristiche, l’atto meramente confermativo non riapre i

termini per impugnare: esso non rappresenta, infatti, un’autonoma determinazione

dell’amministrazione, sia pure identica nel contenuto alla precedente, ma solo

la manifestazione della decisione dell’amministrazione di non ritornare sulle

scelte già effettuate.

Viceversa, la conferma in senso proprio integra una nuova determinazione,

mediante la quale l’amministrazione ribadisce la disciplina già dettata rispetto

ad una determinata fattispecie, così confermandola, ma dopo avere aperto un

nuovo procedimento amministrativo e in forza di una specifica rivalutazione

della situazione complessiva ed in particolare degli interessi complessivamente

implicati nella vicenda.

Ne consegue che la conferma in senso proprio integra un atto nuovo,

autonomamente lesivo della sfera giuridica dell’interessato, anche se

confermativo del primo provvedimento.

La distinzione tra conferma impropria e conferma in senso proprio ha conseguenze

pratiche importanti quanto all’ammissibilità del ricorso giurisdizionale avverso

il secondo atto, ove tale ricorso venga proposto, come nella fattispecie in

esame, dopo che è scaduto il termine per impugnare il primo provvedimento.

Difatti, mentre la conferma propria, che assorbe e sostituisce l’atto

confermato, è sicuramente impugnabile nel termine di decadenza, senza

preclusione alcuna derivante dalla precedente determinazione non impugnata, a

diverse conclusioni deve pervenirsi quando si è in presenza di un atto meramente

confermativo.

Quest’ultimo, invero, a differenza della conferma non assorbe il precedente, né

lo sostituisce, con effetti ex tunc, nella disciplina del rapporto.

Da ciò la conseguenza che la mancata tempestiva impugnazione del primo

provvedimento determina l’inammissibilità (per difetto di interesse) del gravame

avverso il secondo provvedimento: ciò si verifica, in particolare, in tutti i

casi in cui il privato non possa ottenere alcuna utilità dall’annullamento

giurisdizionale del secondo provvedimento, a causa degli effetti ormai

consolidatisi derivanti dal primo atto non impugnato.

Al contrario, la conferma propria, che assorbe e sostituisce l’atto confermato,

è sicuramente impugnabile nel termine di decadenza, senza preclusioni derivanti

dalla precedente determinazione non impugnata (cfr. T.A.R. Lombardia Milano,

sez. III, 11 maggio 2010, n. 1453; in argomento si considerino anche T.A.R.

Valle d’Aosta sez. I, 13 febbraio 2013, n. 5; T.A.R. Roma Lazio, sez. II, 04

gennaio 2013, n. 41; T.A.R. Napoli Campania, sez. IV, 12 dicembre 2012, n. 5099;

Consiglio di Stato, sez. V, 03 ottobre 2012, n. 5196).

Applicando tali principi alla situazione in esame, il Tribunale evidenzia che la

deliberazione assunta dal Senato accademico in data 21 maggio 2012, trae origine

da un appello proposto al Rettore da un gruppo di docenti, diretto ad ottenere

il riesame delle linee strategiche approvate con la deliberazione del 15

dicembre 2011 nella parte in cui prescrivono l’adozione della lingua inglese per

i corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca.

Si tratta, quindi, di una determinazione che trae impulso da uno specifico atto

di iniziativa procedimentale e che ha dato luogo ad uno specifico procedimento

amministrativo di riesame delle linee strategiche, seppure nella sola parte

relativa all’introduzione dell’obbligatorietà dell’utilizzo della lingua

inglese.

Non solo, la deliberazione esplicita di prendere le mosse, oltre che

dall’appello al Rettore, anche da altri atti successivi all’approvazione delle

linee strategiche, quali una specifica mozione presentata dalla Scuola di

architettura e società, una lettera trasmessa da un docente, nonché un parere di

alcuni rappresentanti degli studenti in ordine alla decisione di erogare in

lingua inglese tutti gli insegnamenti delle lauree magistrali.

Pertanto, la determinazione impugnata valorizza non solo lo specifico atto di

appello già richiamato, ma anche ulteriori atti di impulso procedimentale,

assunti a presupposti istruttori della nuova deliberazione.

Del resto, il verbale della riunione del Senato accademico del 21 maggio 2012

precisa come la nuova deliberazione sia stata assunta all’esito di un’ampia

discussione, consistita nell’illustrazione dell’atto di appello e dei contenuti

della mozione, nonché in un’articolata discussione, in cui sono stati

prospettati interessi antagonisti rispetto all’obbligatorietà dell’uso della

lingua inglese, correlati agli obiettivi didattici perseguiti, ai contenuti

degli insegnamenti, allo status giuridico dei docenti e alla necessità di

evitare misure che possano comportare trattamenti discriminatori tra gli

studenti.

Ne deriva che la deliberazione del 21 maggio 2012, pur approvando la mozione

sull’adozione della lingua inglese per i corsi di laurea magistrale e di

dottorato di ricerca, così confermando in parte qua le linee strategiche 2012 –

2014 già approvate dal Senato accademico, si pone all’esito di uno specifico

procedimento di riesame, attivato in forza di specifici atti di impulso

espressivi di interessi differenti, che il Senato accademico ha valutato per

giungere a confermare l’adozione esclusiva della lingua inglese.

Ecco allora, che la deliberazione in esame, lungi dall’integrare un atto

meramente confermativo delle linee strategiche, costituisce una conferma in

senso proprio, che, per la parte trattata, assorbe e sostituisce le linee

strategiche già approvate.

Trattandosi di una conferma propria, la deliberazione è autonomamente

impugnabile, entro gli ordinari termini di decadenza, con conseguente

infondatezza dell’eccezione in esame.

2.2) Con la seconda eccezione di rito, la difesa del Politecnico sostiene che la

determinazione impugnata avrebbe natura meramente programmatica e sarebbe priva

di attitudine lesiva immediata, con conseguente mancanza di un interesse

concreto ed attuale al suo annullamento.

L’eccezione è infondata.

In linea generale va evidenziato che, secondo un consolidato e condivisibile

orientamento giurisprudenziale, il requisito dell’attualità dell’interesse a

ricorrere non sussiste allorché il pregiudizio derivante dall’atto

amministrativo sia meramente eventuale, ossia quando l’emanazione del

provvedimento non sia di per sé in grado di arrecare una lesione nella sfera

giuridica del soggetto che lo impugna, né sia certo che una siffatta lesione

comunque si realizzerà in un secondo tempo (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 7

giugno 2012, n. 3365 che ribadisce Consiglio Stato, sez. IV, 19 giugno 2006, n.

3656; nonché in relazione agli atti di natura programmatica Tar Campania, sez.

III, 16 gennaio 2012 n. 197).

Nel caso di specie, la deliberazione impugnata dispone in modo puntuale che, a

partire dall’anno accademico 2014 – 2015, i corsi di laurea magistrale e i

dottorati di ricerca dovranno essere tenuti in lingua inglese.

Si tratta di una previsione specifica, che determina direttamente l’obbligo per

i docenti dei corsi di laurea magistrale di utilizzare la lingua inglese, sicché

essa, pur inserendosi nel contesto di linee strategiche di natura programmatica,

da un lato, si rivolge a destinatari immediatamente identificabili, dall’altro,

assume un carattere immediatamente cogente, che non richiede di per sé

l’adozione di ulteriori atti.

Certo, l’introduzione di detto obbligo si collega, secondo i contenuti delle

linee strategiche, all’attivazione di strumenti di formazione linguistica, che

però non incidono sull’esistenza dell’obbligo medesimo.

Ne deriva che la determinazione incide immediatamente nella sfera giuridica dei

ricorrenti, perché dà vita direttamente ad un obbligo che incide sulle modalità

di svolgimento dell’insegnamento.

Né è ipotizzabile una carenza di attualità dell’interesse per il mero fatto che

l’obbligo di utilizzare la lingua inglese decorrerà dall’anno accademico 2014 –

2015, atteso che sussiste già la certezza dell’incidenza dell’atto nella sfera

giuridica dei ricorrenti, per effetto dell’obbligatorietà dell’insegnamento in

lingua inglese nei corsi di laurea magistrale.

Del resto, come condivisibilmente dedotto dai ricorrenti, l’introduzione

dell’insegnamento in lingua inglese comporta la necessità per i docenti di

rielaborare la didattica complessiva in base alla lingua da utilizzare, sia in

relazione ai testi adottati, sia rispetto alla struttura complessiva di ciascun

corso, sia, infine, rispetto alla peculiare competenza linguistica richiesta

all’insegnate.

Si tratta di profili che incidono immediatamente sulla posizione dei ricorrenti

e che discendono direttamente dall’innovazione introdotta dalle linee

strategiche contestate, sicché è priva di fondamento la tesi secondo la quale la

deliberazione impugnata sarebbe priva di attuale attitudine lesiva.

Va, pertanto, ribadita l’infondatezza dell’eccezione in esame.

3) Con il primo, il secondo, il terzo e il quarto dei motivi proposti, che

possono essere trattati congiuntamente perché strettamente connessi sul piano

logico e giuridico, i ricorrenti lamentano, in termini di violazione di legge e

di eccesso di potere, il contrasto dell’obbligatorietà dell’insegnamento in

lingua inglese con il principio di rilevanza costituzionale dell’ufficialità

della lingua italiana, quale lingua dello Stato italiano, rilevando come tale

uso obbligatorio ed esclusivo precluda il pieno esercizio della libertà di

insegnamento costituzionalmente garantita e del diritto allo studio ad essa

correlato.

Inoltre, si lamenta la violazione sia dell’art. 271 del r.d. del 31 agosto 1933

n. 159, nella parte in cui prevede che “la lingua italiana è la lingua ufficiale

dell’insegnamento e degli esami in tutti gli stabilimenti universitari”, sia

dell’art. 2, comma 2, lett. l), della legge 2010 n. 240, nella parte in cui

prevede il rafforzamento dell’internazionalizzazione degli atenei, ma senza

consentire che sia reso obbligatorio l’uso di un’unica lingua straniera per i

corsi di laurea magistrale con esclusione della lingua italiana.

Infine, si deduce la violazione del principio, interno e comunitario, di

proporzionalità, perché le misure deliberate non sono realmente funzionali

all’internazionalizzazione del Politecnico e, comunque, limitano in modo

esorbitante tanto la libertà di insegnamento, cui si collega lo status dei

docenti universitari, quanto il diritto allo studio.

3.1) Per stabilire se sia legittima l’esclusività dell’uso della lingua inglese

nei corsi di laurea magistrale e nei dottorati di ricerca, stabilita dal Senato

accademico del Politecnico di Milano mediante i provvedimenti impugnati, occorre

analizzare quale sia il ruolo che l’ordinamento riconosce alla lingua italiana,

in generale e con particolare riferimento all’insegnamento.

E’ pacifico che le norme della Costituzione non contengono una diretta

affermazione dell’ufficialità della lingua italiana, tuttavia tale carattere è

chiaramente percepibile in via indiretta dall’art. 6 Cost. che prevede la tutela

delle minoranze linguistiche rimettendone l’attuazione ad apposite norme.

E infatti, l’esigenza costituzionale di tutelare minoranze linguistiche, non

predeterminate dalla carta costituzionale, sorge proprio in dipendenza del

carattere ufficiale della lingua italiana, come lingua che caratterizza lo Stato

italiano.

Anche disposizioni di legge costituzionale riconoscono l’italiano come lingua

ufficiale dello Stato; si pensi all’art. 99 del Testo unico approvato con d.P.R.

31 agosto 1972, n. 670 – recante l’approvazione del testo unico delle leggi

costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino Alto Adige – ove

si prevede che “nella regione la lingua tedesca è parificata a quella italiana

che è la lingua ufficiale dello Stato”.

In tale senso è significativo che la legge 15 dicembre 1999, n. 482, diretta a

introdurre “norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”,

esordisca all’art. 1 stabilendo che “la lingua ufficiale della Repubblica è

l’italiano”, per poi precisare al comma successivo che “la Repubblica …

valorizza il patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana” e

aggiungendo che la Repubblica “promuove altresì la valorizzazione delle lingue e

delle culture tutelate dalla presente legge”.

Non è dubitabile, come puntualmente rilevato dall’Avvocatura distrettuale, che

la tutela delle minoranze linguistiche sia correlata alle specificità storiche e

culturali di determinate parti del territorio della Repubblica, ma ciò non

toglie che l’esigenza di tutelare talune minoranze, riconoscendone l’identità

linguistica, sorga in dipendenza della dichiarata ufficialità della lingua

italiana.

Ufficialità che non può tradursi in una vuota formula o in una mera

dichiarazione di intenti, ma che assume valenza di principio cogente,

immediatamente operativo, tanto che per la valorizzazione di determinate

minoranze linguistiche si è resa necessaria l’adozione di una specifica

disciplina correlata ad un precetto costituzionale.

Ovviamente ciò non significa che l’uso della lingua inglese previsto dal Senato

accademico del Politecnico rientri nella tematica della tutela delle minoranze

linguistiche, ma consente di evidenziare il carattere centrale che l’ordinamento

attribuisce alla lingua italiana come espressione del patrimonio linguistico e

culturale dello Stato.

Centralità riconosciuta dalla Corte Costituzionale, che, seppure in un giudizio

relativo alla legittimità di alcune disposizioni del codice di procedura penale,

ha affermato, con valore di principio, che la “Costituzione conferma per

implicito che il nostro sistema riconosce l’italiano come unica lingua

ufficiale, da usare obbligatoriamente, salvo le deroghe disposte a tutela dei

gruppi linguistici minoritari, da parte dei pubblici uffici nell’esercizio delle

loro attribuzioni” (cfr. Corte Cost. 20 gennaio 1982, n. 28).

Sempre la Corte Costituzionale ha chiarito la portata dell’ufficialità della

lingua italiana, precisando che la consacrazione, nell’art. 1, comma 1, della

legge n. 482 del 1999, della lingua italiana quale «lingua ufficiale della

Repubblica» non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio

interpretativo generale delle diverse disposizioni che prevedono l’uso delle

lingue minoritarie, “evitando che esse possano essere intese come alternative

alla lingua italiana o comunque tali da porre in posizione marginale la lingua

ufficiale della Repubblica; e ciò anche al di là delle pur numerose disposizioni

specifiche che affermano espressamente nei singoli settori il primato della

lingua italiana” (cfr. Corte Cost. 22 maggio 2009, n. 159).

Ne deriva, in primo luogo, che il carattere ufficiale della lingua italiana ne

determina il primato in ogni settore della vita dello Stato, anche al di là di

specifiche disposizioni che di volta in volta la tutelano; inoltre, il primato

della lingua italiana comporta che ad essa non possa essere attribuito

all’interno dello Stato un ruolo subordinato rispetto ad altre lingue e ciò, se

non è possibile, in base al quadro normativo richiamato, nel rapporto con le

lingue minoritarie espressamente tutelate dall’ordinamento, a maggiore ragione

non può verificarsi rispetto a lingue straniere che difettino di specifiche

disposizioni di salvaguardia.

La centralità della lingua italiana è ribadita con specifico riferimento

all’insegnamento, seppure sempre nel rapporto con le lingue minoritarie

tutelate, proprio dalle disposizioni della legge 1999 n. 482, che pongono

garanzie a salvaguardia dell’italiano.

Così, gli artt. 4 e 5 della legge n. 482 prevedono per le scuole materne,

elementari e medie inferiori, accanto all’uso della lingua italiana anche l’uso

della lingua della particolare minoranza per lo svolgimento delle attività

educative, rimettendo alle istituzioni scolastiche la definizione delle modalità

di svolgimento delle attività di insegnamento della lingua e delle tradizioni

culturali delle comunità locali; allo stesso modo l’art. 6, con riferimento alle

Università, attribuisce all’autonomia dei singoli Istituti l’assunzione di

iniziative “compresa l’istituzione di corsi di lingua e cultura delle lingue”

minoritarie, ricerca scientifica e attività culturali e formative a sostegno

delle finalità poste dalla legge n. 482.

Ancora una volta il dato normativo conduce ad evidenziare che nelle situazioni

in cui l’ordinamento prevede la tutela di specifiche lingue minoritarie, viene

comunque preservato il primato della lingua italiana, che non può comunque

assumere un ruolo subordinato o secondario.

A maggior ragione, una volta chiarito che il principio del primato della lingua

italiana ha portata generale, come precisato dalla Corte Costituzionale,

sussiste la necessità di garantire che la lingua italiana non subisca

trattamenti deteriori anche quando il rapporto non sia con lingue minoritarie

tutelate, ma con lingue straniere rispetto alle quali non sussistano specifiche

norme di tutela.

A ben vedere, tale principio è esplicitato, per gli insegnamenti erogati in

ambito universitario, dall’art. 271 del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, recante

l’approvazione del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore, ove si

prevede che “la lingua italiana è la lingua ufficiale dell’insegnamento e degli

esami in tutti gli stabilimenti universitari”.

La disposizione ribadisce il primato della lingua italiana nel contesto degli

insegnamenti universitari, sicché in relazione ad essi l’italiano non può

assumere un ruolo subordinato o comunque secondario rispetto all’uso di altre

lingue.

L’Avvocatura distrettuale pone il problema della compatibilità della norma

appena richiamata con l’art. 2, comma 2, lett. l), della legge 2010 n. 240,

rilevando che, quand’anche non si ritenga che la seconda disposizione abbia

abrogato implicitamente la prima, nondimeno quest’ultima non potrebbe operare

qualora le Università decidessero, come nel caso concreto, di rafforzare il

profilo dell’internazionalizzazione, mediante l’attivazione di corsi di studio

in lingua straniera.

La tesi, pur se diffusamente argomentata, non può essere condivisa.

Occorre muovere dal contenuto dell’art. 2, comma 2, lett. l), della legge 2010

n. 240, ove si prevede che “…le università statali modificano, altresì, i propri

statuti in tema di articolazione interna, con l’osservanza dei seguenti vincoli

e criteri direttivi: … l) rafforzamento dell’internazionalizzazione anche

attraverso una maggiore mobilità dei docenti e degli studenti, programmi

integrati di studio, iniziative di cooperazione interuniversitaria per attività

di studio e di ricerca e l’attivazione, nell’ambito delle risorse umane,

finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti,

di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera”.

La norma pone un criterio direttivo, che deve orientare l’autonomia

universitaria al fine di rafforzare il processo di internazionalizzazione,

consentendo alle istituzioni universitarie di istituire insegnamenti, corsi di

studio e forme di selezione svolti in lingua straniera.

Il rapporto tra la norma appena citata e l’art. 271 del R.D. 1931, n. 1592, non

é strutturabile in termini di incompatibilità, con conseguente abrogazione

implicita della disposizione più remota, perché le due norme hanno ambiti di

operatività differenti.

In particolare, l’art. 271 sancisce il primato della lingua italiana per gli

insegnamenti universitari, mentre l’art. 2, comma 2, lett. l), della legge 2010,

n. 240, prevede la possibilità di introdurre dei corsi in lingua straniera per

incrementare la vocazione internazionale degli istituti universitari.

Insomma, tra le due norme non ricorre un rapporto di incompatibilità logica, né

sussiste un’inconciliabilità tra i loro contenuti precettivi, sicché non vi è

spazio per configurare un’abrogazione tacita per incompatibilità, ai sensi

dell’art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile.

Ecco, allora, che il rapporto che intercorre tra le due norme deve essere

costruito tenendo conto del principio del primato della lingua italiana, che,

come già precisato, emerge indirettamente dalla carta costituzionale ed è

sancito direttamente da alcune leggi costituzionali, come il Testo unico delle

leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino Alto Adige.

Ne deriva che l’internazionalizzazione delle Università deve essere compiuta

rispettando il primato della lingua italiana, da intendere secondo le

precisazioni sviluppate dalla Corte Costituzionale (cfr. (cfr. Corte Cost. 20

gennaio 1982, n. 28; Corte Cost. 22 maggio 2009, n. 159).

Proprio applicando i già richiamati criteri elaborati dalla Corte, si deve

ritenere che il processo di internazionalizzazione sia compatibile con

l’ordinamento nella misura in cui non collochi la lingua italiana in posizione

marginale rispetto ad altre lingue, facendole assumere un ruolo subordinato nel

contesto dell’insegnamento universitario.

Da ciò deriva che il rapporto tra l’art. 271 del R.D. 1933, n. 1592 e l’art. 2,

comma 2, lett. l), della legge 2010 n. 240, non è qualificabile in termini di

deroga, nel senso che la seconda disposizione legittima una deroga al principio

sancito dalla prima, come pure prospettato dall’Avvocatura, anche nel corso

della discussione in pubblica udienza, perché questa ricostruzione condurrebbe a

porre in contrasto l’art. 2, comma 2, lett. l), con il principio costituzionale

del primato della lingua italiana.

Contrasto non insuperabile, perché l’art. 2, comma 2, lett. l), si presta ad

essere interpretato in modo coerente con il quadro costituzionale e con le norme

che, in applicazione dei principi costituzionali, ribadiscono il primato della

lingua italiana anche nell’insegnamento universitario; circostanza questa che

esime il Tribunale dal sollevare la questione di legittimità costituzionale

rispetto alla norma in esame, pure prospettata dai ricorrenti, anche se in via

subordinata.

Le due norme si prestano ad essere coordinate, in termini di reciproca

integrazione, perché il contenuto dell’art. 2, comma 2, lett. l), nella parte in

cui detta il criterio direttivo della realizzazione del processo di

internazionalizzazione non impone la necessaria collocazione della lingua

italiana in posizione subordinata rispetto a lingue straniere.

La disposizione si limita ad indicare delle azioni strumentali al rafforzamento

dell’internazionalizzazione, ma l’uso della congiunzione “anche” rende evidente,

in primo luogo, che si tratta di un’indicazione non tassativa, in coerenza sia

con l’autonomia ordinamentale delle Università, sancita dall’art. 33 Cost., sia

con la vocazione della norma in esame, volta a porre criteri direttivi.

Tra le azioni è compresa anche la possibilità di attivare, nell’ambito delle

risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente,

insegnamenti, corsi di studio e forme di selezione svolti in lingua straniera.

L’utilizzo di simili strumenti non implica che l’uso della lingua italiana debba

necessariamente assumere un ruolo di secondo piano o comunque marginale negli

insegnamenti, perché di tratta di un risultato non previsto dalla norma, né

indispensabile per realizzare gli obiettivi che essa pone.

Al contrario, fermo restando il primato della lingua italiana,

costituzionalmente imposto, si tratta di valorizzare nell’ottica

dell’internazionalizzazione anche l’uso di lingue straniere, da affiancare alla

lingua italiana, in modo da ampliare l’offerta formativa.

Spetta all’Università selezionare gli insegnamenti che si prestano a tale

processo, per la materia trattata, che di per sé presenta una vocazione

internazionale, o in considerazione delle origini e dello sviluppo scientifico

di una certa disciplina in una particolare lingua straniera.

Insomma, l’uso della lingua straniera deve essere tale da affiancare, in

particolari materie, quello della lingua italiana, nei limiti in cui sia

necessario per favorire il processo di internazionalizzazione.

Del resto, la norma non limita all’uso di una lingua straniera il processo di

apertura verso l’estero, ma contempla misure ulteriori, come la mobilità di

docenti e di studenti, finalizzata a portare in Italia le conoscenze di docenti

stranieri e all’estero quelle di docenti italiani e tale da consentire agli

studenti italiani di svolgere all’estero una parte del proprio percorso

formativo.

Similmente, si prevede la possibilità di adottare programmi integrati di studio,

così da avvicinare il piano formativo delle università italiane a quello

realizzato da università estere e viceversa; nello stesso senso vengono promosse

le iniziative di cooperazione interuniversitaria per attività di studio e di

ricerca.

Insomma, la possibilità di tenere dei corsi di studio in lingua straniera,

facendo sostenere in tale lingua anche le prove di esame, rappresenta solo uno

degli strumenti diretti a favorire l’internazionalizzazione e deve essere

attuato, per esigenze sistematiche e di compatibilità costituzionale, nel

rispetto del primato della lingua italiana.

3.2) Si tratta ora di stabilire se le modalità con le quali il Politecnico ha

valorizzato l’uso delle lingue straniere nell’ottica dell’internazionalizzazione

sia coerente con il quadro normativo appena esaminato.

L’analisi deve muovere da una considerazione di fatto: dalla lettura della

deliberazione del Senato accademico del 21 maggio 2012 e delle linee strategiche

contenute nella deliberazione del 15 dicembre 2011, emerge con sicurezza che

dall’anno accademico 2014 – 2015 i corsi di laurea magistrale e i dottorati di

ricerca tenuti presso il Politecnico di Milano – che è un’istituzione

universitaria pubblica, che eroga il servizio pubblico di istruzione (tra le più

recenti T.A.R. Abruzzo L’Aquila, sez. I, 19 dicembre 2012, n. 840) – dovranno

essere attivati “esclusivamente in inglese” (cfr. doc. 4 e doc 9 di parte

resistente), sicché non è dubitabile che gli atti impugnati escludano per i

corsi appena indicati l’utilizzabilità della lingua italiana, tanto in fase di

insegnamento, quanto in sede di esame.

L’assetto ora indicato non è compatibile con la posizione che la lingua italiana

ha nell’ordinamento, anche ai fini delle modalità di erogazione

dell’insegnamento universitario, secondo la normativa costituzionale ed

ordinaria.

In primo luogo, l’uso della lingua inglese è definito, rispetto ai corsi di

laurea magistrale e ai dottorati di ricerca, come un uso esclusivo, sicché in

questi ambiti è precluso l’utilizzo della lingua italiana, tanto nella fase

dell’insegnamento, quanto nel momento delle prove d’esame.

Si tratta di una soluzione che marginalizza l’uso dell’italiano, perché la

lingua straniera non si pone sullo stesso piano di quella italiana,

affiancandola, ma la sostituisce radicalmente.

Sostituzione non disposta in relazione a particolari e specifici insegnamenti,

ma indiscriminatamente, rispetto a tutti gli insegnamenti che appartengono ai

corsi di laurea magistrale, oltre che ai dottorati di ricerca.

Insomma, il Senato accademico ha deciso di escludere la lingua italiana dalla

parte specialistica della preparazione, conservandola solo per il triennio, nel

quale, incontestatamente, si collocano gli insegnamenti destinati a fornire un

preparazione di base.

Non si tratta, come è ovvio, di realizzare un’insussistente graduazione di

“importanza“ tra gli insegnamenti del triennio e quelli del biennio magistrale,

ma di prendere atto della funzione specializzante di quelli collocati nel

biennio, al pari dei corsi relativi ai dottorati di ricerca.

Ne consegue che la disciplina gravata contrasta con il principio del primato

della lingua italiana sia per l’ampiezza riconosciuta all’impiego della lingua

inglese, sia per la diversa incidenza riconosciuta all’italiano e all’inglese

rispetto alla formazione specialistica.

Sotto il primo profilo, va ribadito che l’uso esclusivo dell’inglese è stato

previsto per tutti i corsi di laurea magistrale, seguendo una logica non

selettiva, diretta cioè a predisporre l’utilizzabilità della lingua inglese in

ragione della specificità della materia, ma generalista, perché riferita in modo

indiscriminato a tutti i corsi magistrali e a tutti i dottorati di ricerca.

Dal punto di vista in esame, la scelta del politecnico si pone in una logica

diametralmente opposta a quella sottesa al principio, di rilevanza

costituzionale, del primato della lingua italiana, perché rende la lingua

inglese alternativa a quella italiana.

Così facendo si persegue l’obiettivo dell’internazionalizzazione eccedendo i

mezzi consentiti a tale scopo, in rapporto sia all’art. 271 del R.D. 1933 n.

1559, sia all’art. 2, comma 2, lett. i), della legge 2010 n 240, perché

l’apertura internazionale dell’Università non si estende sino alla possibilità

di sopprimere per interi corsi di laurea l’uso della lingua italiana.

Tanto più il contrasto con il quadro normativo emerge se si considera il secondo

profilo, ossia che l’esclusione è stata disposta rispetto ai corsi destinati

alla specializzazione, come le lauree magistrali e i dottorati di ricerca; in

particolare, la lingua italiana è stata estromessa, sempre in modo

indiscriminato, dalla porzione di formazione più qualificante, senza considerare

che il primato che le è riconosciuto dall’ordinamento non è fine a sé stesso, ma

tende a garantire la conoscenza e la diffusione dei valori che ispirano lo Stato

italiano.

Vale precisare che ciò non esclude l’attivabilità di corsi di laurea anche in

lingua straniera, ma significa che il rispetto del ruolo che l’ordinamento

assegna alla lingua italiana impone che sia consentita la scelta tra

l’apprendimento in italiano o in lingua straniera, scelta non consentita dai

provvedimenti impugnati, che sono diretti a precludere l’uso dell’italiano nelle

lauree magistrali e nei dottorati, tanto ai fini dell’insegnamento, quanto ai

fini dell’apprendimento.

Le ultime considerazioni permettono di evidenziare – come condivisibilmente

censurato dai ricorrenti – che l’imposizione della lingua inglese quale

strumento di insegnamento e di apprendimento, contrasta sia con la libertà di

insegnamento, garantita dall’art. 33 Cost., sia con il correlato diritto allo

studio.

Esiste uno stretto rapporto tra l’esercizio della libertà di insegnamento

garantito dalla Costituzione Repubblicana e l’utilizzabilità della lingua

italiana.

Una volta chiarito che l’italiano non è tutelato quale mezzo di comunicazione

orale o scritta, ma per l’insieme di valori culturali che sottende, è

consequenziale rilevare che la piena esplicazione della libertà di insegnamento

presuppone la possibilità di utilizzare l’italiano, nel senso che il docente che

esercita in una istituzione pubblica deve poter scegliere di trasmettere le

conoscenze nella lingua italiana.

Simmetricamente, il discente deve essere posto in condizione di avvalersi della

lingua italiana per la formazione praticata in una Università italiana.

Queste corrispondenze sono negate dalle delibere impugnate, che, nei corsi di

laurea magistrale e nei dottorati, obbligano i docenti ad insegnare in lingua

inglese e gli studenti ad apprendere in lingua inglese.

Si badi, la lesione della libertà di insegnamento è ancora più evidente se si

considera che, dall’anno accademico 2014 – 2015, il docente di un corso compreso

nel biennio magistrale, se intende esercitare il diritto di insegnare in lingua

italiana, deve spostare la propria attività didattica nel triennio di base, il

che significa che deve abbandonare il corso già gestito e optare per uno

diverso, compreso tra gli insegnamenti del triennio, atteso che le materie del

biennio finale non sono intercambiabili con quelle del triennio, perché

afferiscono alla preparazione specialistica.

Sul punto la difesa del Politecnico sostiene che la libertà di insegnamento

sarebbe rispettata, perché ciascun docente del biennio magistrale potrebbe

decidere di continuare ad insegnare in italiano al Politecnico, spostandosi nel

triennio di base.

L’argomentazione non è condivisibile, perché coglie solo una parte del fenomeno.

Come già evidenziato, ai fini della compatibilità del processo di

internazionalizzazione con il principio del primato della lingua italiana e con

la tutela della libertà di insegnamento, è centrale la circostanza che lo stesso

insegnamento possa essere mantenuto in italiano dal medesimo docente, ma questo

binomio non è consentito, perché il docente che decide di continuare ad

insegnare in italiano deve spostarsi nel triennio di base, cambiando la materia

insegnata, con conseguente violazione della libertà di insegnamento.

Questo non significa che ciascun docente abbia una sorta di “diritto al corso”,

perché le esigenze organizzative, rimesse all’autonomia universitaria, possono

condurre all’accorpamento di corsi, alla loro suddivisione, all’istituzione di

nuovi corsi o alla soppressione di altri, con i conseguenti riflessi sulle

materie insegnate dai docenti interessati. Piuttosto, sta ad indicare che il

singolo docente non può essere sostituito nella gestione di un corso perché si

rifiuta di insegnare in una particolare lingua straniera, atteso che in questo

modo si comprime la sua libertà di insegnamento, che, alla luce del primato

della lingua italiana, deve potersi esplicare in italiano nella misura in cui è

esercitata in una Università pubblica italiana.

Parimenti, è condivisibile la doglianza secondo la quale le delibere impugnate

non sono coerenti con l’obiettivo dell’internazionalizzazione.

Sul punto la difesa del Politecnico sostiene che la scelta effettuata sarebbe in

linea con l’obiettivo indicato, perché la lingua inglese é un “veicolo diffuso

di comunicazione”.

L’argomentazione non è persuasiva.

Le linee strategiche prevedono l’utilizzazione della sola lingua inglese, ma

questo comporta un’apertura limitata alle sole culture anglofone, secondo un

criterio selettivo non coerente con la finalità dell’internazionalizzazione.

Nulla esclude che per certi insegnamenti la logica dell’internazionalizzazione

possa condurre ad ampliare l’offerta formativa con l’introduzione di corsi anche

in lingua inglese, ma non vi sono ragioni emergenti dagli atti impugnati per

ritenere giustificata la gestione esclusivamente in lingua inglese di tutti gli

insegnamenti del biennio magistrale e dei dottorati di ricerca.

A ben vedere, il problema in esame è stato sottoposto al Senato accademico,

perché dal verbale della seduta del 21 maggio 2012 emerge la trattazione della

questione dell’effettiva compatibilità di taluni insegnamenti magistrali, come

quelli di architettura, con l’uso della lingua inglese.

Ciò nonostante è stata approvata la scelta di gestire esclusivamente in inglese

anche questi insegnamenti magistrali.

Il dato ora indicato evidenzia un profilo di irragionevolezza degli atti

impugnati – profilo censurato dai ricorrenti con i motivi in esame – in quanto

vi sono degli insegnamenti compresi nelle lauree magistrali e nei dottorati,

come diritto urbanistico, diritto amministrativo, diritto dell’ambiente, che,

pur riferendosi al panorama normativo e giurisprudenziale dello Stato italiano,

dovrebbero essere impartiti in lingua inglese, così come in inglese dovrebbero

essere sostenute le prove di esame.

In questo modo si addiviene ad un risultato incoerente con la dichiarata

finalità di favorire l’internazionalizzazione, perché anche per gli insegnamenti

che più si connotano per un intenso legame con la lingua e la cultura italiana

si impone l’uso della lingua inglese.

Non va dimenticato che l’apertura dell’Università al panorama scientifico

internazionale è un obiettivo complesso, come risulta dalla pluralità di azioni

previste dall’art. 2, comma 2, lett. l), della legge 2010 n. 240; obiettivo che

non si traduce solo nell’arricchire la didattica italiana con i valori di

culture straniere, anche mediante l’istituzione di determinati corsi in lingua

straniera, ma comprende la possibilità che siano conosciute all’estero le

specificità della didattica italiana e ciò si realizza, specie negli

insegnamenti più permeati di cultura italiana, nel conservare l’uso della lingua

italiana, intesa non solo come mezzo di comunicazione, ma come strumento di

trasmissione di specifici valori culturali.

Analizzando il problema da questo punto di vista, spicca in modo evidente

l’illogicità della scelta di valorizzare in modo assorbente l’uso della lingua

inglese per tutti i corsi delle lauree magistrali e per i dottorati, senza

tenere conto della specificità dei diversi insegnamenti, della possibilità di

valorizzare altre lingue straniere e della necessità di attuare l’apertura vero

l’estero mantenendo il primato della lingua italiana, secondo i principi

emergenti dalla Costituzione.

L’Avvocatura distrettuale sostiene che la coerenza delle delibere impugnate con

il processo di internazionalizzazione emergerebbe dai paragrafi 30 e 31

dell’allegato B del D.M. 23 dicembre 2010 n. 50, che, secondo la tesi difensiva,

consentirebbe l’attivazione di corsi in lingua inglese nel senso voluto dal

Senato accademico.

Neppure questa deduzione è condivisibile.

Il D.M. 23 dicembre 2010, n. 50, contiene la definizione delle linee generali

d’indirizzo della programmazione delle Università per il triennio 2010 – 2012.

Il paragrafo 30 dell’Allegato B del D.M. stabilisce che, dalla data di adozione

del decreto e fino al completamento dell’adeguamento degli ordinamenti didattici

di tutti i propri corsi, le Università non possono procedere alla istituzione di

nuovi corsi di studio, precisando che nuovi corsi di studio possono essere

successivamente istituiti secondo quanto previsto dal successivo paragrafo 32.

Il paragrafo 31 dispone che al fine di favorire la razionalizzazione e “la

internazionalizzazione delle attività didattiche, il divieto di cui al punto §

30 non trova applicazione nei riguardi dell’istituzione di corsi di studio

finalizzata all’accorpamento di corsi già presenti nel RAD (con contestuale

cancellazione dal RAD degli stessi), ovvero di corsi omologhi a corsi già

presenti nel RAD da attivare nella medesima sede didattica dei medesimi, che

prevedano la erogazione delle attività didattiche interamente in lingua

straniera, anche in relazione alla stipula di convenzioni con Atenei stranieri

per il rilascio del doppio titolo o del titolo congiunto”.

La lettura integrale delle due disposizioni conduce ad un risultato

interpretativo diverso da quello prospettato dalla difesa del Politecnico.

Invero, mentre la disposizione del paragrafo 30 vieta l’istituzione di nuovi

corsi di studio, l’art. 31, in via derogatoria, ne consente l’attivazione quando

si tratti di procedere all’accorpamento di corsi preseesistenti, oppure se si

tratti di attivare dei corsi in lingua straniera, ma, in quest’ultimo caso, a

condizione che si tratti di corsi omologhi ad altri già presenti nel RAD e da

attivare nella medesima sede didattica.

La norma, quindi, consente in via derogatoria la istituzione di nuovi corsi in

lingua straniera, ma a condizione che corrispondano a dei corsi già esistenti in

lingua italiana.

Così interpretata la disposizione è coerente con il panorama normativo di

riferimento, perché salvaguarda il primato della lingua italiana, consentendo

l’apertura verso l’estero mediante la possibilità di seguire lo stesso corso

anche in lingua straniera.

Insomma, i paragrafi 30 e 31 del D.M. n. 50/2010, se letti nella loro interezza,

non valgono a supportare le determinazioni impugnate, ma piuttosto ne

evidenziano l’illegittimità, perché con esse non sono stati introdotti dei corsi

in lingua straniera omologhi a corsi preesistenti e gestiti in italiano, ma è

stata prevista la radicale sostituzione della lingua inglese a quella italiana

nelle lauree magistrali e nei dottorati di ricerca, senza garantire il primato

della lingua italiana.

Le considerazioni sinora svolte conducono a ritenere fondata anche la censura

diretta a contestare il difetto di proporzionalità delle misure adottate.

Come è noto, il principio di proporzionalità impone, in estrema sintesi, che la

misura adottata dall’amministrazione sia idonea a realizzare l’obiettivo

perseguito e non vada oltre quanto è necessario per raggiungerlo (cfr. Corte

giustizia U.E., grande sezione, 27 novembre 2012, n. 566, nonché Corte giustizia

U.E., 6 dicembre 2005, C-453/03, C-11/04, C-12/04 e C-194/04).

Insomma, la proporzionalità è rispettata quando l’amministrazione,

nell’esercizio dei poteri discrezionali di scelta della misura da adottare per

realizzare un determinato obiettivo, concentra l’attenzione su quella che

consente di raggiungere il risultato minimizzando il sacrificio degli altri

interessi compresi nella fattispecie.

Nel caso di specie i parametri indicati non risultano rispettati.

L’obiettivo perseguito dal Politecnico è quello di favorire

l’internazionalizzazione dell’Ateneo, ma l’uso esclusivo della lingua inglese

per la parte specializzante dell’offerta didattica – biennio magistrale e

dottorati – non riflette l’obiettivo perseguito, perché esso non richiede una

scelta così radicale per essere raggiunto.

Come già evidenziato l’uso esclusivo della lingua inglese apre l’Ateneo ai paesi

la cui cultura si connota per l’uso dell’inglese, ma non si tiene conto

dell’ampio respiro sotteso all’esigenza di internazionalizzazione, che comporta

un’apertura verso il pluralismo culturale, mantenendo la centralità della lingua

italiana e non un’apertura selettiva, perché limitata ad una particolare lingua.

Non si vuole negare che, come è noto, l’uso della lingua inglese sia

particolarmente diffuso, ma ciò non significa che l’uso obbligatorio ed

esclusivo di questa lingua favorisca l’internazionalizzazione

dell’Ateneo, perché manca ogni correlazione tra l’uso dell’inglese e la

possibilità di diffondere le conoscenze, la didattica, le modalità di

insegnamento praticate dal Politecnico in relazione ai contenuti dei diversi

corsi che compongono le lauree magistrali e i dottorati.

Del resto, ci si è già soffermati sul fatto che la marginalizzazione

dell’italiano, che così si verifica, oltre a contrastare con il principio del

primato della lingua italiana, contrasta anche con l’obiettivo

dell’internazionalizzazione, perché l’esclusione dell’italiano dagli

insegnamenti specialistici comporta che l’apertura verso l’estero sia

unidirezionale, ossia diretta a favorire, con l’uso di una particolare lingua

straniera, la diffusione delle conoscenze e dei valori che tipicamente in quella

lingua si esprimono, dimenticando però che l’internazionalizzazione implica

anche diffusione delle conoscenze e dei valori che, nei diversi insegnamenti,

sono apportati dalla cultura italiana e che in italiano si manifestano.

Parallelamente, la prevista sostituzione della lingua inglese alla lingua

italiana per tutti gli insegnamenti del biennio magistrale e per i dottorati di

ricerca, incide in modo esorbitante sulla libertà di insegnamento e sul diritto

allo studio, che integrano degli interessi di rilevanza costituzionale

sicuramente compresi nella vicenda in esame.

Va ribadito, infatti, che l’innovazione approvata dal Senato accademico obbliga

i docenti, che in esercizio della loro libertà di insegnamento intendono

continuare la docenza nei corsi già gestiti del biennio magistrale, ad insegnare

necessariamente in lingua inglese, adattando a ciò i programmi, i testi, la

didattica, nonché acquisendo conoscenze della lingua inglese prima non

richieste.

Il punto è particolarmente rilevante, perché la conoscenza della lingua inglese

non implica di per sé la capacità di sviluppare la didattica in inglese, in

quanto è evidente che tale capacità richiede una dimestichezza e una padronanza

della lingua del tutto peculiare.

Allo stesso modo, gli studenti che intendono completare presso il Politecnico la

propria formazione, ivi frequentando anche il biennio magistrale o dedicandosi

al dottorato, dovranno necessariamente abbandonare l’uso della lingua italiana.

In altre parole, gli interessi di cui sono portatori insegnanti e studenti

vengono sacrificati in una misura di gran lunga eccedente quanto necessario per

realizzare l’obiettivo dell’internazionalizzazione.

Obiettivo che, si ripete ancora una volta, non significa piegare gli

insegnamenti e la cultura scientifica praticati in una Università pubblica

italiana in favore di una particolare lingua straniera, per quanto essa sia

diffusa come mezzo di comunicazione tra persone di diversa nazionalità, ma

significa attivare strumenti che consentano agli studenti stranieri di

sperimentare e conoscere la didattica italiana e agli studenti italiani di

arricchire le proprie conoscenze con quelle che in ciascuna materia sono

sviluppate in paesi stranieri.

Tra le azioni utilizzabili vi è anche, ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. l) ,

della legge 2010 n. 240, l’istituzione di corsi in lingua straniera, ma ciò deve

avvenire, da un lato, nel rispetto del primato della lingua italiana,

dall’altro, nel rispetto degli interessi di docenti e studenti italiani, che

devono poter scegliere la lingua in cui, rispettivamente, insegnare ed

apprendere, infine, garantendo un effettivo pluralismo nella circolazione delle

conoscenze scientifiche, che viene, invece, offuscato quando si decide di

valorizzare una sola lingua straniera per tutta la parte didattica destinata

alla formazione specialistica.

Ne deriva che le scelte compiute dal Senato accademico con le delibere impugnate

si rivelano sproporzionate, sia perché non favoriscono l’internazionalizzazione

dell’Ateneo, ma ne indirizzano la didattica verso una particolare lingua e verso

i valori culturali di cui quella lingua è portatrice, sia perché comprimono in

modo non necessario le libertà, costituzionalmente riconosciute, di cui sono

portatori tanto i docenti, quanto gli studenti.

Va, pertanto, ribadita la fondatezza delle censure trattate, il cui carattere

sostanziale consente di prescindere dall’esame delle ulteriori doglianze

articolate nel ricorso.

4) In definitiva, il ricorso è fondato e deve essere accolto.

La particolare complessità delle questioni giuridiche esaminate consente di

ravvisare giusti motivi per compensare tra le parti le spese della lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza)

definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso e per l’effetto annulla la

delibera adottata in data 21 maggio 2012 dal Senato accademico del Politecnico

di Milano nella parte in cui ha approvato la mozione sull’adozione della lingua

inglese per i corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca.

Compensa tra le parti le spese della lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 26 marzo 2013 con

l’intervento dei magistrati:

Adriano Leo, Presidente

Alberto Di Mario, Primo Referendario

Fabrizio Fornataro, Primo Referendario, Estensore

L’ESTENSORE

IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 23/05/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)